B&P Legal

post-header

Il divieto di licenziamento per GMO si applica anche ai datori di lavoro non coinvolti dalla crisi

Come noto, per far fronte alla crisi economica causata dalla pandemia da Covid-19, il Governo, attraverso l’emanazione di due Decreti Legge (n. 18/2020 e n. 104/2020), ha disposto il divieto di porre in essere licenziamenti per giustificato motivo oggettivo, sia collettivi che individuali, fatte salve alcune limitate deroghe.

In particolare, con i predetti provvedimenti sono stati individuati come “destinatari” di tale divieto, i datori di lavoro che “non abbiano integralmente fruito dei trattamenti di integrazione salariale riconducibili all’emergenza epidemiologica da COVID-19 […] ovvero dell’esonero dal versamento dei contributi previdenziali”.

Il divieto in questione ha creato negli scorsi mesi un acceso dibattito tra i giuristi; molti, invero, hanno sollevato dubbi sulla tenuta costituzionale di tale previsione. Infatti, se da un lato ci si è interrogati sulla compatibilità di detta norma con l’art. 41 della Costituzione, dall’altro ci si è chiesti se un blocco generale dei licenziamenti sia effettivamente compatibile con il concetto di emergenza, che giustificherebbe la norma stessa.

Al di là di questo aspetto, non è stata chiarita dal Governo la reale estensione della disposizione in esame e ciò ha comportato diverse interpretazioni della stessa.

Secondo un’interpretazione letterale del dettato normativo, infatti, la disposizione troverebbe applicazione nei soli casi di riduzione del personale collegate, anche solo in senso lato, all’emergenza sanitaria. In tal modo, si consentirebbe alle aziende che intendono effettuare una riorganizzazione strutturale, non riconducibile in alcun modo all’emergenza da Covid-19, di procedere in tal senso.

Secondo una diversa interpretazione, invece, il divieto sarebbe applicabile anche ai datori di lavoro che non hanno usufruito del trattamento di integrazione salariale riconducibile all’emergenza epidemiologica ovvero dell’esonero dal versamento dei contributi previdenziali di cui all’art. 3 del D.L. n. 104/2020. Pertanto, il divieto opererebbe indistintamente per tutti i datori di lavoro.

A favore di quest’ultima interpretazione si è espresso il Tribunale di Venezia, Sezione Lavoro, con la recente ordinanza del 17.05.2021, resa a definizione di un giudizio in cui il lavoratore aveva proposto ricorso avverso il licenziamento allo stesso intimato per giustificato motivo oggettivo.

In particolare, con istanza del 13.03.2020, la società aveva attivato la procedura di cui all’art. 7 L. 604/66, e, contemporaneamente, aveva esonerato il lavoratore dal rendere la prestazione lavorativa; successivamente all’entrata in vigore del D.L. 18/2020, tuttavia, la società aveva sospeso la procedura.

In seguito all’emanazione del D.L. 104/2020, l’azienda aveva poi sollecitato l’ITL a riattivare la procedura e, senza nemmeno attendere il relativo riscontro, la società aveva intimato il licenziamento al lavoratore in data 15.09.2020. Peraltro, dopo pochi giorni, l’ITL aveva confermato la sospensione della procedura.

In merito al predetto ricorso, la società ha sostenuto la legittimità del licenziamento in quanto, in base al dettato letterale della norma contenente il divieto di licenziamento e non avendo fruito degli ammortizzatori sociali, ben avrebbe potuto avviare un licenziamento per giustificato motivo oggettivo.

Il Giudice, al contrario, ha disatteso l’interpretazione letterale dell’art. 14, comma 1, del D.L. 104/2020, proposta dalla resistente, affermando che il divieto di licenziamento è applicabile anche nei confronti dei datori di lavoro non direttamente coinvolti dalla crisi emergenziale dovuta al noto virus Covid-19.

Del resto, ha sostenuto il Tribunale, in un periodo storico emergenziale come quello che stiamo vivendo oggi, è comprensibile che il Legislatore abbia voluto bilanciare due interessi contrapposti: da un lato la necessità di garantire un’esistenza dignitosa ai lavoratori conservandone il posto di lavoro e, dall’altro, la libertà di iniziativa economica degli imprenditori.

Il Tribunale di Venezia, pertanto, ha dichiarato la nullità del licenziamento perché in contrasto con la normativa che prevede uno specifico divieto in tal senso, ed ha previsto altresì la condanna del datore di lavoro alla reintegra del lavoratore.

L’ordinanza in questione – anche se non ancora definitiva, in quanto emessa al termine della fase sommaria di un “procedimento Fornero” – è una prima interessante pronuncia su questo tema tanto dibattuto in dottrina e siamo certi che il tema sarà presto esaminato anche da altri Tribunali.

Alla luce di tale pronuncia, si reputano necessarie alcune considerazioni.

E’ passato più di un anno dall’entrata in vigore del blocco dei licenziamenti, individuali e collettivi, ed ancora oggi si ritiene che questo sia l’unico strumento per evitare una deriva sociale.

Dalle analisi effettuate nel corso dei mesi scorsi, tuttavia, è emerso chiaramente che tale divieto non ha prodotto gli effetti desiderati: invero, nonostante l’intento del Legislatore fosse quello di evitare che i lavoratori potessero perdere il proprio posto di lavoro, la realtà ad oggi è piuttosto diversa.

Secondo la nota n. 1/2021 pubblicata dal Ministero del Lavoro in collaborazione con la Banca d’Italia, infatti, è emerso che nel 2020 i contratti di lavoro cessati hanno superato di gran lunga quelli attivati: la maggior parte, peraltro, a termine.

A ciò si aggiunga il fatto che, dalla data di introduzione del divieto di licenziamento per motivi economici ad oggi, sono stati ben 800mila gli occupati in meno rispetto a febbraio 2020 e, sempre nel 2020, sono stati comunque 558mila i licenziamenti attuati per motivi non economici. Con ogni probabilità, inoltre, alcuni di questi sono stati posti in essere per motivi solo all’apparenza diversi da quelli economici.

L’intento iniziale del Legislatore, volto a salvaguardare i posti di lavoro messi in serio pericolo dalla crisi economica mondiale, ha creato e sta creando tuttora non poche difficoltà alle aziende che, pur non avendo necessità di utilizzare gli ammortizzatori sociali, si trovano da mesi nell’impossibilità di riorganizzare il proprio assetto interno.

Seguendo l’interpretazione data nell’ordinanza in oggetto, i datori di lavoro dovrebbero optare per una richiesta incondizionata degli ammortizzatori sociali per collocarvi il personale dipendente attualmente in esubero, procrastinando un provvedimento espulsivo che, inevitabilmente, verrà attuato una volta cessato il divieto.

In tal modo, si finirebbe per “gravare” ulteriormente sulle casse dello Stato – che, come stiamo vedendo in questi giorni, non riesce più nemmeno a finanziare le richieste di ammortizzatori sociali relative al periodo aprile-maggio 2021 – di ulteriori costi, pur non avendo le società in questione alcun interesse specifico al riguardo.

Lo scorso 2 giugno, inoltre, nelle raccomandazioni approvate a Bruxelles, la Commissione Europea ha sottolineato in modo critico come l’Italia sia l’unico Stato membro che ha introdotto un divieto di licenziamento all’inizio della crisi da Covid-19. La Commissione ha evidenziato poi come, in realtà, tale misura abbia avvantaggiato solo i lavoratori con contratto a tempo indeterminato, a scapito dei lavoratori interinali e stagionali, creando un’ingiusta discriminazione nei confronti dei lavoratori a tempo determinato.

Tale divieto, sempre secondo la Commissione Europea, potrebbe addirittura rivelarsi controproducente nel lungo periodo, poiché ostacola il necessario adeguamento della forza lavoro a livello aziendale.

Allo stesso modo, a ben vedere, anche i lavoratori, posti in cassa integrazione, hanno percepito un salario decisamente più basso rispetto a quello percepito normalmente, con tutto ciò che ne consegue. Ciò in aggiunta al fatto che, nella maggior parte dei casi, i lavoratori hanno percepito la retribuzione con un ritardo di alcuni mesi.

Alla luce di tutto ciò, ci si domanda se effettivamente il blocco dei licenziamenti sia stata la soluzione giusta da attuare per arginare la crisi dovuta al Covid-19.

Forse, considerato l’ingente impegno economico profuso dallo Stato attraverso il finanziamento degli ammortizzatori sociali “gratuiti e per tutti”, sarebbe stato meglio investire tali somme per attuare finalmente interventi strutturali, soprattutto in materia di lavoro, che avrebbero favorito una reale ripresa economica per il nostro Paese e una possibilità di rioccupazione concreta una volta cessato il blocco dei licenziamenti.

bep.admin

About Author
Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *