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Durante il periodo di emergenza da Coronavirus sono emerse non poche criticità in tema di ammortizzatori sociali, soprattutto per quanto riguarda i diversi aspetti operativi.

Uno tra questi (forse il più importante) è il rapporto tra malattia e CIG, con particolare riferimento al calcolo del periodo di comporto.

Con la recente sentenza n. 16 del 20.01.2021, il Tribunale di Pesaro ha cercato di chiarire alcuni aspetti fondamentali in merito al rapporto tra i due istituti.

Infatti, con il messaggio INPS n. 1822 del 30.04.202 l’Istituto ha fornito una propria interpretazione in merito all’art. 3, comma 7, D.Lgs. 148/2015 secondo cui “il trattamento di integrazione salariale sostituisce in caso di malattia l’indennità giornaliera di malattia, nonché l’eventuale integrazione contrattualmente prevista”.

In particolare, l’Inps ha affermato che, qualora lo stato di malattia sia precedente all’inizio della sospensione dell’attività lavorativa, si avranno due casi:

a) se la totalità del personale in forza all’ufficio, reparto, squadra o simili cui il lavoratore appartiene ha sospeso l’attività, anche il lavoratore in malattia entrerà in CIG dalla data di inizio della stessa;

b) qualora non venga sospesa dal lavoro la totalità del personale in forza all’ufficio, reparto, squadra o simili cui il lavoratore appartiene, il lavoratore in malattia continuerà a beneficiare dell’indennità di malattia, se prevista dalla vigente legislazione.

Al di là della confusione che l’Inps ha prodotto sul tema, a parere di chi scrive, questo messaggio ha voluto chiarire solamente l’aspetto economico della questione.

Nulla, al contrario, è stato stabilito dall’INPS in merito al rapporto intercorrente tra l’assenza per malattia, la sospensione per CIG e la decorrenza del periodo di comporto.

Tale rapporto, tuttavia, è stato analizzato dalla sentenza del Tribunale di Pesaro che di seguito esaminiamo.

Il ricorrente è stato licenziato per superamento del periodo di comporto – nel caso di specie, ai sensi dell’art. 63 del CCNL Trasporto e spedizione, si trattava di un periodo di 365 giorni di malattia nei 30 mesi precedenti all’ultimo evento morboso – e, successivamente, con ricorso depositato presso il Tribunale di Pesaro, lo stesso ha chiesto di accertare l’illegittimità ovvero la nullità del predetto licenziamento.

In particolare, il ricorrente ha eccepito, tra le altre cose, l’erroneo computo del periodo di comporto, in quanto il datore di lavoro, a detta dello stesso, aveva indebitamente conteggiato le assenze che pur erano state coperte dai certificati di malattia, intervenute durante il periodo di Cassa integrazione a zero ore.

Il ricorrente, partendo proprio dal messaggio INPS di cui sopra ha desunto che, se durante una malattia l’azienda pone il dipendente in Cassa integrazione a zero ore, allora, di conseguenza, dovrebbe mutare non solo l’aspetto economico, ma anche la qualificazione giuridica dell’assenza stessa.

Invero, ha sostenuto il ricorrente, anche in presenza di una preesistente certificazione medica, l’assenza dal lavoro non sarebbe più ascrivibile al lavoratore ma imputabile alla sopravvenuta chiusura dell’azienda e pertanto, non potrebbe più essere computata ai fini del comporto.

Questa tesi, tuttavia, non è stata condivisa dal Tribunale, il quale ha chiarito che il legislatore, con l’art. 3, comma 7 del D.Lgs 148/2015, e l’INPS con il suo messaggio di interpretazione di detta disposizione, ha inteso esclusivamente prevedere una diversa “imputazione” della sola prestazione economica che è cosa ben diversa dal comporto.

Dunque, nel caso di malattia coincidente con il periodo di CIG a zero ore, il mutamento della connotazione della prestazione economica non incide sul titolo dell’assenza e sulla sua rilevanza all’interno del rapporto tra lavoratore e datore di lavoro.

In effetti, a ben vedere, se al datore di lavoro venisse data la possibilità di determinare il mutamento del titolo dell’assenza del lavoratore quando questo è in malattia, ciò comporterebbe l’attribuire allo stesso un potere extra ordinem, in contrasto con un diritto tutelato dalla stessa Costituzione quale quello alla salute.

E non è pensabile che il legislatore abbia voluto dare un potere tanto ampio al datore di lavoro!

Tale facoltà, invece, spetta solamente al lavoratore il quale, per evitare di superare il periodo di comporto, ben potrebbe presentare al datore di lavoro richiesta di ferie in sostituzione della malattia, non sussistendo incompatibilità assoluta tra questi due istituti (così come ribadito di recente dalla stessa Cassazione con sentenza n. 19062/2020, e come già affermato con sentenza n. 27392/2018).

Il Tribunale ha, quindi, confermato la legittimità del licenziamento.

Si tratta, evidentemente, di una prima pronuncia su questo delicato tema.

A nostro parere, però, stante la delicatezza della questione trattata, nonché l’utilizzo prolungato degli ammortizzatori sociali nel corso degli ultimi due anni, è prevedibile che la questione sarà oggetto di nuove sentenze che daranno adito a nuovi spunti di riflessione.

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